Giorgia Soleri

Giorgia Soleri e il suo libro “La signorina nessuno”

11 June 2022

Il disagio quando non è muto strilla. Si può urlare il dolore, la sofferenza in mille modi diversi, Giorgia Soleri ha scelto la poesia

 

Per chi ancora non conoscesse l’autrice della raccolta di poesie La signorina nessuno, in ristampa per Vallardi pochi giorni dopo l’uscita, Giorgia Soleri è una ragazza di 26 anni, modella, “femminista guastafeste” e influencer su Instagram su un tema che è anche una battaglia privata, l’endometriosi. Da qualche settimana anche promotrice della proposta di legge per il riconoscimento della vulvodinia e neuropatia del pudendo nei livelli essenziali di assistenza del Sistema Sanitario nazionale.

Incidentalmente, Giorgia è anche la compagna della rockstar che il mondo ci invidia, Damiano David, frontman dei Måneskin, anche se lei avverte «La rockstar di casa sono io». La prefazione a La signorina nessuno invita alla cautela: attenzione, qui si parla di temi dolorosi come dipendenza affettiva, autolesionismo, disturbi alimentari e suicidio. Perché la lettura del dolore non è consigliabile a tutti.

Ci vuole molto coraggio a mettersi a nudo così.

«Più che nuda sono scoperta, la nudità implica una scelta. Però scrivere tutto questo per me è stata una liberazione. Non so se posso definirmi una persona forte o coraggiosa, però: la forza ce l’hai quando puoi scegliere, quando non puoi scegliere è sopravvivenza. La dico dritta: nella condizione in cui mi trovavo avevo due possibilità, ammazzarmi o creare una quotidianità che desse senso al mio dolore. Credo nel caring is sharing, la condivisione aiuta, crea rete e comunità, lo capisco anche dai feedback che sto ricevendo».

La cura del benessere psicologico è ancora un tabù, nella tua visione?

«La salute mentale dovrebbe essere presa in considerazione tanto quanto la salute fisica. Mia madre, un’illuminata evidentemente, mi ha portato in terapia per la prima volta a 12 anni, soffrivo di attacchi di panico. Per me è stato un passo naturale: problema, soluzione. Capivo che non era così guardando le facce sorprese dei miei amici quando rinunciavo a qualche uscita perché dovevo andare dallo psicologo. Eppure è stato quando ho finalmente dato spazio al mio dolore, raccontandolo a un terapeuta, che mi sono sentita legittimata a provarlo».

Ti definisci “femminista guastafeste”. Non potremmo esserlo tutti, pacatamente?

«Bisogna guastare le feste per creare feste migliori. Il femminismo della mia generazione vuole cambiare le regole, creare una crepa, ha bisogno di urlare e di essere fastidioso. Rispetto alla generazione di donne che ci ha preceduto – a cui dobbiamo molto, stiamo raccogliendo un testimone – noi riusciamo a vedere il nostro privilegio: io sono una donna bianca di famiglia borghese, dunque fortunatissima, ma combatto anche schemi di oppressione e intersezioni tra le oppressioni che ci sono e permangono. È un femminismo il nostro che fa i conti con problematiche che anni fa erano meno eclatanti o non esistevano».

Avete anche una grossa responsabilità davanti alle ragazze di oggi. Dovreste buttarvi in politica, no?

«Sentiamo questa responsabilità e invitiamo le ragazze con cui ci confrontiamo spesso a non bruciarsi, a non mettersi a rischio, le “femministe morte” non servono. Intendo chi per difendere un’idea o una causa rischia il burnout. Quanto alla politica, non fa per me. Innanzitutto perché sono convinta che “il personale è politico”, e quel che faccio ha già un valore in sé, poi perché non mi sento portata per questo tipo di impegno. La politica – intesa come partiti, voti – è l’arte del compromesso e da attivista credo di avere una maggiore libertà di espressione. Posso essere guastafeste, appunto».

Con molte altre attiviste avete presentato un disegno di legge sulla cura della vulvodinia. Com’è andata?

«Abbiamo lavorato in moltissimi a questo disegno: 300/350 attiviste come me affette da questa patologia, un comitato scientifico, associazioni. La proposta di legge è stata scritta ”dal basso” e abbiamo avuto l’appoggio della deputata del Pd Giuditta Pini, ora miriamo a che questo disegno riesca ad essere preso in considerazione dalla legge di Bilancio. Il cammino è appena iniziato, bisogna fare pressione, anche sulle singole Regioni, tenere alta la temperatura».

Modella, scrittrice, influencer, fotografa. Cosa farai da grande lo sai già?

«Ho lavorato come modella per nove anni, ora lo farei solo per qualche progetto speciale, o con un grande fotografo. Scrivo da quando ero in quinta elementare, ma fotografo ancora meglio. Mi piacciono gli autoritratti e i reportage, cinque anni fa ho fatto un corso di fotografia in Marocco, foto di bambini. Ma non riuscirei mai a scattare servizi di moda, fotografare uno sconosciuto, per me la foto è una cosa intima, ci dev’essere uno scambio. Comunque vada, la mia strada è la comunicazione, qualunque sia la declinazione che vogliamo darle».

A proposito di relazioni, nel libro ce ne sono due che spiccano, su tutte. La prima è la mamma.

«Le ho dedicato il libro, anche lei avrebbe voluto scriverne uno di poesie, e una breve lirica: ‘’Cosa vuoi essere da grande?/ Chiedono a me le signore/’’Mia madre’’/ dico io’’. Il nostro è un rapporto simbiotico, abbiamo vissuto, da sole, esperienze molto dolorose, siamo due teste calde. La amo per la forza con cui ha condotto la sua vita».

La seconda: Damiano, presente in ogni riga. Lui per te ha scritto una canzone struggente, Coraline. Vi date il permesso ogni volta di parlare l’uno dell’altra?

«Damiano semplicemente mi ha detto che non si permetteva di intralciare il mio lavoro, l’artista fa ciò che gli pare. E Coraline è legata a un momento nostro, intimo, di cui non parlerò mai con nessuno».

Sinceramente, ti aspettavi tanto successo per lui e la sua band?

«Sono fierissima del fatto che abbia realizzato il suo sogno, è andato dritto come un carro armato anche davanti a chi cercava di scoraggiarlo. Quanto a me, sul suo talento non avevo nessun dubbio. E sì, lui è meglio di Mick Jagger».

di Elisabetta Sala

©Riproduzione riservata