Lo abbiamo conosciuto come rapper catastrofico e incazzato con il mondo intero. Lo ritroviamo in una nuova veste melodica, più vicina al cantautorato pop. Anastasio cambia pelle. Ma è davvero così? In fondo la sua Mielemedicina è un trucco antico…
Due anni di silenzio prima di Mielemedicina, il secondo album di Anastasio, pubblicato il 25 febbraio scorso. Due anni in cui quella Fine del mondo che cantava a X Factor nel 2018 (è stato il vincitore di quell’edizione) è arrivata davvero: «Ho fatto una serie di profezie», scherza lui oggi. Ma questi due anni hanno rischiato di spegnere l’entusiasmo del giovane cantautore: «Sono stati mesi di noia, che è anche peggio della sofferenza. Perché la noia, a differenza del dolore, non fa crescere niente».
Per fortuna, tra un lockdown e l’altro Anastasio, 24enne di Meta (Sorrento), una laurea in agraria, si è messo a studiare. Si è appassionato alla poesia di Bukowski e di Baudelaire, alla filosofia degli epicurei, e si è fatto delle domande esistenziali che ha tradotto nelle nove tracce di Mielemedicina, un album che deve il suo nome all’antica usanza di addolcire la coppa dell’assenzio con il miele, riportata nel De rerum natura di Lucrezio.
Questa settimana ripartono anche i suoi live, in un giro che lo porta da Trento a Napoli passando per Milano, Roma (già sold out), Firenze, Bologna e altre città. «Ho fatto qualcosina dal vivo al Teatro Regio di Parma ma quasi mi sono dimenticato come si fanno i concerti. Ho alle spalle solo i due tour del 2019, e ora ho voglia di tornare sul palco. Per questo mi sto preparando a dovere: spero di ritrovare chi mi seguiva e qualche fan nuovo, arrivato con questo ultimo album».
Sì, perché con un’inversione di rotta Anastasio ha puntato sulla melodia e sul cantautorato. Spiazzando chi si aspettava di trovare il rapper furibondo di Rosso di rabbia (Sanremo nel 2020).
Anastasio, cos’è successo a quella rabbia che cantavi fino a due anni fa?
«È rimasta ma si è trasformata perché nella vita si va avanti, si cresce e a volte serve uno stacco netto. La ferocia ha lasciato il posto alla dolcezza, per questo dico che Mielemedicina è un disco maturo. Non ho scritto pezzi rabbiosi e sono contento che nonostante un certo cambio di stile la mia anima non sia stata tradita. Era il piccolo timore irrazionale che avevo prima che uscisse l’album, quello di scioccare il mio pubblico».
Maturità a 24 anni. Non è presto?
«È tutto comparato ai miei lavori precedenti. Non credo di essere compiuto come persona, perché se lo fossi questo sarebbe il mio ultimo album. Ma non amo essere ripetitivo: devo fare ricerca per le mie canzoni, devo comunicare qualcosa e a un certo punto le cose in superficie finiscono. Per trovare nuovi spunti bisogna iniziare a scavare».
Anastasio, qui entra in gioco la poesia.
«E anche la filosofia. Ce lo ha dimostrato Nietzsche che il linguaggio poetico è utile alla filosofia: dietro la poesia ci sono ricerche, concetti, visioni del mondo e tutti questi linguaggi si alimentano l’un l’atro. Per me il trigger, l’elemento scatenante, è stata quella congiunzione astrale che mi ha portato con il giusto stato mentale a prendere in mano il libro che mi serviva in quel momento (Allegria di Massimo Ferretti, ndr).
Con la poesia è sempre così: è un genere difficile, spesso inteso solo come materia scolastica. Invece è nobile perché dà risalto alla parola. Ma serve un po’ di fortuna: dipende dalla predisposizione mentale, dal libro che capita in mano, dal testo che si trova quando si apre. Se tutto questo funziona, la poesia può dare delle sensazioni incredibili. Anche Baudelaire mi ha ispirato tante cose ma il principale è stato Ferretti e se oggi dovessi consigliare una lettura direi lui perché è luminoso ed è facile entrarci in contatto».

Foto di Valerio Nico
Aggiungiamo un elemento, il cuore, che è anche sulla cover del disco. In Assurdo, primo singolo estratto, vuoi fartelo togliere ma alla fine decidi che è meglio tenerselo.
«Il cuore ha un valore salvifico. È un punto debole perché è puro, e avere cuore significa essere vulnerabili. Ma è anche l’organo che metaforicamente ci rende umani. Lo tolgo per evitare sofferenze e poi lo rivoglio per poter amare. Il dolore e l’amore sono i due poli opposti di Assurdo».
Qual è il dolore più assurdo per Anastasio?
«Il più terribile è la solitudine ma ogni dolore è assurdo. Il testo però fa riferimento a una condizione di dolore esistenziale».
C’è una canzone che sembra scritta per questo momento storico. Si chiama Babele e racconta di chi non si capisce perché parla lingue diverse.
«Babele parla del potere magico della parola, capace di evocare, di creare e di influenzare il piano immaginario delle persone che a sua volta condiziona il piano reale. Ma più che mille lingue diverse, la gente oggi non si capisce neanche se parla lo stesso idioma perché le parole sono completamente slegate dalle cose e sono diventate delle realtà a sé stanti, un labirinto di specchi in cui hanno un valore diverso tra chi le dice e chi le ascolta. Il linguaggio viene costantemente sprecato, come dico nel finale della prima strofa: “Le parole diventarono strumenti imperfetti e dopo idoli e dopo spettri”. Questo concetto riprende il tema biblico perché tutto l’Antico Testamento può essere visto come la storia del linguaggio. L’uomo ha sempre considerato sacro il suo rapporto con la parola, però oggi ce ne stiamo dimenticando».
Ne L’Impero che muore c’è la fuga di un dittatore da un Paese in rivolta. Potrebbe parlare della guerra?
«No, è una visione allegorica della trasformazione del potere. Il brano si pone in un contesto storico non precisato, ci sono elementi che richiamano il Medioevo come il castello e altri futuristici come l’elicottero con cui scappa Sua Maestà. Il popolo va a prendere il castello ma è solo il bozzolo perché il potere si è trasformato in qualcosa di nuovo, non risiede più nei luoghi e neanche nelle persone. Rispetto al passato è un’entità dispersa che non si comporta in maniera prevedibile».
Anastasio: racconti il mondo di oggi ma non ci sono riferimenti alla pandemia.
«Perché la pandemia è un tema impoetico. Magari un giorno metabolizzerò quello che è successo e ne parlerò direttamente. Ma adesso non mi interessa. Sicuramente mi ha influenzato è ancora tutto recente, c’è troppa cronaca».
In Simbolismo dici: “Dateci il corpo, se Cristo è morto vogliamo la salma”. Critichi i social?
«Questo brano ha una duplice lettura ma i social non c’entrano. Da una parte il popolo vuole le prove perché viviamo nell’era dello scetticismo totale. Dall’altra c’è la provocazione: è una sfida perché Cristo non è davvero morto, è una farsa. Hanno organizzato un mega funerale a Dio ma qualcuno si sveglia e dice “Se è morto fateci vedere la salma” per dimostrare che non lo è».
Quando hai deciso di fare il cantautore?
«All’inizio la musica era solo un divertimento. Poi intorno ai vent’anni ho capito che potevo viverci. Ma scrivere mi è sempre piaciuto: il potere di emozionare con le parole. Vedere che anch’io ero capace di questa magia mi rendeva fiero. Da ragazzino non sapevo che fare, a un certo punto sognavo di diventare giornalista!».
Ti sei trasferito a Milano. Com’è?
«In realtà ci vivo ancora per poco. Ogni anno prendo casa con gli affitti temporanei, da settembre a maggio. Poi torno a Meta, dove sono le radici. Ma quest’anno finalmente sarò in tour».
Cosa fai quando non lavori?
«Calcio. E poi arrampicata e sono un patito di videogiochi. L’ultimo che trovo incredibile è Rocket League, una specie di partita a calcio ma con le macchine. Per il resto mi piace stare in mezzo alla gente, fare tardi. Non sono festaiolo ma amo il contatto umano. A volte le persone si aspettano chissà che da me ma su molte cose sono un tipo ordinario. Non vivo una vita noiosa ma neanche sorprendente».
di Rachele De Cata