Sharon Stone: «Il cinema è poco coraggioso»
Sharon Stone è tornata in tv nei panni di Lenore Osgood in Ratched la serie partita il 18 settembre su Netflix
Sharon Stone torna in tivù con Ratched (prequel di Qualcuno volò sul nido del cuculo), dal 18 settembre su Netflix. Nella serie interpreta l’eccentrica riccona Lenore Osgood in Ratched, che si scontra con l’inquietante infermiera Mildred (Sarah Paulson). Abbiamo incontrato Sharon su Zoom. «È bello entrare in casa tua!». La sua voce avvolge come un abbraccio, nonostante la distanza obbligata di una videochiamata. Rompe il ghiaccio con un complimento gentile, considerato soprattutto la meraviglia del salottino che fa da sfondo a lei. Alle sue spalle troneggia un quadro gigante con foto di donne del passato.Sharon solleva i piedi sulla poltrona bianca in ecopelliccia, femminile come solo lei sa essere. Capelli legati, trucco naturale e pantaloni cachi, non ha nulla della femme fatale a cui la accostiamo da sempre.
Qualche anno fa una serie tutta al femminile, senza stereotipi e retorica, sarebbe stata impensabile. Hollywood sta davvero cambiando?
«Il patriarcato è alle strette e questo cambiamento è stato colto con grande acume soprattutto dalla tv. Quello che è accaduto in passato, con abusi da parte di uomini di potere, ha cambiato il sistema. Si percepisce un’aria nuova, più pulita».
Cos’hanno in comune film come Basic Instict e questa nuova serie, Ratched?
«Sono “facili” da interpretare: queste donne non hanno nulla in comune con me, sono folli e selvagge e non devo scavare in me stessa per mettermi nei loro panni. È un viaggio imprevedibile, pericoloso ma anche catartico perché quello che Lenore fa e dice non deve per forza avere un senso per me, visto che arriva da rabbia, impotenza e insicurezza. Somiglio a lei solo nella reazione ai prepotenti: quando qualcuno prova a mettermi sotto pressione per ragioni che considero sbagliate, scatto. Le caz**te proprio non le sopporto».
Che rischi si corrono invece, secondo te, a interpretare qualcuno che ci somiglia?
«Beh, quello principale è la noia. Potrei andare sul set con i miei vestiti di tutti i giorni, senza neppure bisogno di make up. Non vedo il divertimento».
A proposito di guardaroba: ti sei portata a casa qualche capo chic di Lenore?
«A dire il vero no, ma la costume designer ha realizzato apposta per me un cappotto lungo fino a terra, bianco con interni leopardati, e me lo ha regalato. Ancora non so in che occasione potrò sfoggiarlo, ma lo custodisco con grande orgoglio».
Lenore pare un personaggio davvero estremo…
«Me lo ha detto pure Roan, il maggiore dei miei figli: “Questa tipa non è un po’ “troppo” in tutto?”. Avete ragione, ma tanto non ha niente da perdere e si muove come le pare, con la sua scimmietta».
Com’è stato portarsela in spalla per tutto il tempo, su abiti a pelle, per giunta?
«La scimmia si chiama Pablo ed è molto comunicativo: i momenti con lui sul set erano i miei preferiti, anche se all’inizio mi sono opposta categoricamente all’idea di avere un primate sul corpo. Ho proposto di avere una bella tigre al guinzaglio, ma il creatore Ryan Murphy non ha sentito ragioni. Poi ho capito perché: la scimmietta è una metafora dell’anima di questa donna, non poteva esserci nessun altro animale. In passato ho diviso il set con rinoceronti, pitoni, elefanti, zebre, orsi, ma questa è stata di gran lunga l’esperienza più emozionante ed eccitante».
Ti piacciono molto, gli animali?
«I primati mi affascinano parecchio. Allo zoo ti dicono sempre di non guardare i gorilla, invece io faccio l’opposto, voglio subito un contatto visivo quando mi avvicino alla gabbia, sono curiosa di capire che cosa succede».
Ratched affronta anche il tema della malattia mentale. È stato difficile per te parlarne dopo l’emorragia cerebrale che vent’anni fa ti è quasi costata la vita?
«Di sicuro non è una di quelle storie che ti scrolli di dosso quando torni a casa dal set ogni sera. Te la sogni di notte, ti entra talmente sotto pelle che ti sembra che ti abbiano preso a botte».
Non ti manca il cinema?
«Credo che l’avarizia dei grandi studi lo stia uccidendo. Quando pensi al business più che alle storie da raccontare, non esiste margine per trame come questa, un noir anni 40 con donne al comando, capaci di portare in scena intimità emotiva e fragilità. In un film o in un set maschile, queste cose te le scordi».
Ti consideri femminista?
«Certo: molte donne tacciono e subiscono, compresi comportamenti inappropriati e brutali, per non essere ostracizzate. A me è successo ma sono contenta di raccontarlo anche a nome di chi non può. E questo, a mio avviso, è il vantaggio più importante che ha un’attrice riconoscibile come me: fare da megafono».
Hai tre figli adottivi (Roan, 20 anni, Laird, 15 e Quinn, 14). Da madre, sei disposta a tutto?
«Hai visto il film Three Kings? Ecco c’è una scena in cui una donna col burka si lancia incontro a una pallottola per farla schivare al figlio. Una mamma ragiona così, è puro istinto di protezione. E io non faccio eccezione».
Di Alessandra De Tommasi