Hanno vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino per la sceneggiatura del film Favolacce. I fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo sono i registi italiani da tenere d’occhio. Breve intervista ai due gemelli sul film, una favola nera arrivata on demand sulle maggiori piattaforme tivù
Gemelli, 31 anni, l’aria da nerd e uno spiccato accento romano, i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo sono i più promettenti registi italiani del momento. Cineasti autodidatti cresciuti a pane e film, hanno esordito conquistando la critica con La terra dell’abbastanza nel 2018. E lo scorso febbraio, hanno presentato all’ultima Berlinale Favolacce, conquistando un Orso d’argento per la migliore sceneggiatura. Il film avrebbe dovuto uscire a metà aprile, ma con la chiusura dei cinema è arrivato ora on demand sulle maggiori piattaforme streaming. Tra i protagonisti: Elio Germano, premiato sempre a Berlino per un altro film, Volevo nascondermi di Giorgio Diritti.
Una favola nerissima dei fratelli D’Innocenzo
Già dal titolo, Favolacce si presenta come una storia nera a metà strada tra le fiabe crudeli dei fratelli Grimm e il cinema di Tim Burton. Siamo nella periferia romana ma le villette a schiera nel verde ricordano la provincia americana dei film di David Lynch. C’è un finto benessere senz’anima, giornate di sole senza gioia, una calma apparente che minaccia tempesta e tragedia. I genitori organizzano le giornate dei figli tra piscine gonfiabili e grigliate. Badano ai bisogni spiccioli e rincorrono status symbol ma non vedono oltre, chiusi come sono nei loro egoismi.
E così i ragazzini, apparentemente bravi e obbedienti, iniziano a tramare contro padri e madri. E contro quell’insostenibile infelicità mascherata da normalità. Al festival di Berlino, gli eclettici fratelli D’Innocenzo – si dedicano a fotografia, poesia, letteratura – ne hanno parlato mostrando il libretto con immagini pop-up del film, creato da loro stessi. Creativi su tutta la linea, si dividono le domande senza mai smentirsi. Gemelli anche nella visione del mondo.
Come vi è venuta in mente la storia?
«L’abbiamo immaginata quando avevamo 19 anni ma forse ce l’avevamo in testa fin da bambini. Abbiamo sempre vissuto una sorta di dualismo tra quello che vedevamo e quello che sentivamo. Da un lato il mondo ci sembrava crudele e asfissiante, dall’altro pensavamo di essere noi troppo introversi e meditabondi, pessimisti. Crescendo abbiamo capito di non esserci sbagliati e abbiamo voluto fare un film sull’intuito straordinario e pericolosissimo dei bambini. Sapevamo che avremmo affrontato tutto questo, prima o poi nella vita».
Gli adulti della storia sembrano tutti anaffettivi e ignoranti. I figli, come forse voi da piccoli, provano rabbia per questo?
«Il personaggio di Elio Germano, Bruno, è disoccupato ma fa parte come gli altri di una piccola borghesia molto legata ai soldi. Li abbiamo immaginati come giovani degli anni 90 che hanno comprato casa in una periferia anonima, una specie di limbo dove hai tutto ma non ti basta lo stesso. Sono persone che hanno fallito non tanto socialmente ma come esseri umani. Non hanno spessore, davanti e dietro non c’è niente. E i bambini sono gli unici che sembrano rendersene conto. Scelgono da che parte stare a costo di usare la violenza. La rabbia nasce quando ti senti diverso, sconnesso dal mondo».
Anche la provincia è protagonista del film?
«Abbiamo cercato un ambiente che rimandasse a un immaginario infantile, come in Edward Mani di Forbice di Tim Burton. Quando abbiamo visto il film di Tim Burton, tanti anni fa, ci sembrava ambientato in un luogo dell’anima. La letteratura americana ci ha formato, a cominciare dai racconti di Carver, e abbiamo cercato paesaggi non riconoscibili. Questo è un racconto sulla provincia in cui tutti possono riconoscersi».
Ma davvero anche da piccoli avevate una visione così nera del mondo?
«Forse nessuno ricorda la propria infanzia felice. Ma la nostra visione è ancora la stessa. Non vogliamo giudicare nessuno, siamo contraddittori anche noi».
Di Valeria Vignale – Foto courtesy Gucci