Pretty Woman compie 30 anni: il film con Richard Gere (70) e Julia Roberts (52) è uscito nei cinema americani il 23 marzo 1990 e in Italia nel luglio successivo. Negli anni è diventato il film-bandiera di Raiuno, che l’ha trasmesso 28 volte. E per 28 volte ha vinto la gara degli ascolti tivù
Lui è bello, ricco, un po’ orco. Lei è maledettamente smart ma ha un lavoro così così. Quando scocca l’happy ending, però, ti accorgi che Pretty Woman, 30 anni ben portati, ha diversi livelli di lettura Verranno a dirvi che è misogino, offensivo, frutto di quell’irriducibile visione patriarcale che divide il mondo in eroi brizzolati a cavallo e giovanissime damigelle (di facili costumi, perdipiù) capaci soltanto di farsi salvare. Ma è perché non hanno capito la grandezza di Pretty Woman.
A 30 anni dalla sua uscita nelle sale – il 23 marzo negli Stati Uniti, qualche mese dopo in Italia – è più che mai evidente che Vivian Ward era un’eroina femminista in un’epoca in cui ancora non andavano di moda (e quindi potevano avere qualche difetto). Il film è stato accusato di restituire un’immagine glamour della prostituzione, e in parte è vero: è difficile per chiunque non sia Julia Roberts avere il magnetismo stellare di Julia Roberts, figuriamoci per una squillo nel mondo reale. Ma all’inizio c’è una prostituta ammazzata nel cassonetto della spazzatura: uno sfondo non esattamente edulcorato, contro il quale la protagonista emerge in tutte le sue sfaccettature.
Orgogliosa, non giudicante
Vivian è intelligente, si intende di macchine, è libera e gioca alle sue regole: lei dice chi, lei dice quando, lei dice quanto. Rifugge ogni stereotipo, non vuole essere giudicata ma neanche giudica: la sua migliore amica, Kit, è un disastro che cammina, eppure continua ad aiutarla. (Nella prima stesura del film, molto più drammatica, Kit alla fine muore per overdose). E poi c’è Richard Gere: lo spietato uomo d’affari fatto a forma di orsacchiotto.
Quando in Shrek fanno l’elenco delle favole senza orco includono Pretty Woman, ma si sbagliano di grosso: qui l’orco è proprio lui, Edward. Di mestiere manda in rovina i poveri per diventare (più) ricco, e quando paga Vivian per rimanere con lui tutta la notte poi si mette a fare telefonate di lavoro. Neanche sa guidare con il cambio manuale. La verità è che nessuno ha mai capito cosa ci trovasse, una sveglia così, in un tale rigidone. A parte, naturalmente, le fragole, lo champagne e «una sfacciata somma di denaro».
Ma il personaggio indimenticabile è il Fato Padrino, ovvero il direttore dell’albergo Barnard Thompson: quello che per primo riconosce il fascino autentico di Vivian e contribuisce più di tutti al lieto fine. Perché Pretty Woman è una favola, certo: irresistibile e irrealistica come solo possono essere le favole. Ma è precisamente la favola che vogliamo, quella in cui è l’eroina che sconfigge l’orco – o meglio: lo riduce alla sua versione più inoffensiva – e sostanzialmente si salva da sola, guadagnando nel processo un guardaroba pazzesco. Sottovalutare l’insegnamento sarebbe proprio
un grosso errore. Grosso, sì. Enorme.
Di Clelia Pescatori