Per metà fuoco per metà abbandono, romanzo d’esordio della “Iena” Sabrina Nobile (Sem, € 16), è la storia di Sara, una quarantenne che deve affrontare la perdita degli uomini più importanti della sua vita.
Sara sta vivendo i suoi quarant’anni, momento cruciale della vita in cui, guardandosi allo specchio, ci si accorge del tempo che passa e si fatica a riconoscersi. E proprio in quel momento di passaggio gli uomini più importanti della sua vita la abbandonano. Il marito la lascia sola con due bambini, senza nemmeno avere il coraggio di guardarla negli occhi e dirle: “Non ti amo più”. Il padre fa una scelta estrema dopo un’esistenza fatta di scelte difficili e un lungo periodo di sofferenza.
Comincia così il viaggio della protagonista alla riconquista di sé, scandito dalle piccole sedute di Sara davanti allo specchio, momenti in cui la donna si studia e si interroga sulla sua vita presente e passata.
Sara ripercorre le tappe di un rapporto d’amore che si spegne, l’incomunicabilità, l’assenza anche quando l’altro è presente, il dolore silenzioso e solitario, i dubbi, i sensi di colpa, il dovere di non lasciarsi andare davanti ai figli. Eppure, anche nei momenti peggiori, non è mai patetica, mantiene sempre una grande dignità e cerca di trarre forza da tutto, convinta che nella vita tutto possa servire da insegnamento.
Abbiamo intervistato Sabrina Nobile facendoci guidare da 5 parole chiave del romanzo. E parleremo ancora insieme del suo libro domenica 13 maggio, alle 18.30, al Caffé letterario del Salone del libro di Torino.
Specchio delle mie brame. Sara avverte il crollo della sua vita non solo psicologicamente ma anche attraverso il suo corpo che cambia…
«La donna intorno ai quaranta anni subisce una crisi profonda, arriva a un punto di rottura con il suo corpo, che subisce un cambiamento profondo. Si vede brutta, deve riconciliarsi con sé stessa, riconoscersi, reinventarsi. Se poi a questa crisi di mezza età si aggiunge anche un abbandono, il rifiuto da parte dell’uomo con cui si sceglie di condividere la vita, allora si ha l’impressione che tutto crolli, e che non ci sia rimedio. Per Sara quel momento di passaggio è drammatico, psicologicamente e fisicamente. Anche perché deve affrontare tutto con due figli ancora piccoli».
L’uomo navigatore. Quando abbandona Sara, il marito le dice: «L’uomo è un navigatore, deve andare, i figli non deve vederli tutti i giorni”.
«In quel momento lei lo addenterebbe, stringerebbe le mascelle fino a farsi male pur di non farlo scappare, invece si scansa e gli lascia via libera. Sara ha conosciuto la modalità di non-amore degli uomini fin da piccola, quando suo padre ha abbandonato sua madre, lei e il fratello per un’altra donna, e ha formato un’altra famiglia. Il suo è un destino di abbandono, quindi crescendo si è allenata a prendere una distanza emotiva dagli eventi, per non farsene schiacciare. Eppure, nonostante tutto, ama ancora gli uomini, e suo padre paradossalmente le ha insegnato tante cose, come l’intimità condivisa, l’intensità di vivere la vita. È solo che Sara ha capito fin da piccola che le storie d’amore non sono come ci vengono raccontate, ha acquisito questo sguardo spassionato sugli eventi. Crescendo ha imparato a stare dentro al dolore, a farsene attraversare ma con gli occhi aperti, per poter sempre imparare qualcosa».
L’uomo color cacca. È l’alter ego di Sara, la parte maschile che nei momenti peggiori esce allo scoperto per proteggerla. Quell’uomo dentro la salva o rischia di farla affondare?
«Noi donne oggi siamo costrette a sviluppare a dismisura la nostra parte maschile, per poterci difendere, per sobbarcarci il peso delle responsabilità che molti uomini non si prendono. Spesso non possiamo lasciarci andare e vivere le emozioni, oppure scegliere liberamente, perché quell’alter ego maschile ci costringe a tirare i remi in barca e a non rischiare più. Ma questa difesa alla lunga diventa una gabbia, che non permette più di provare emozioni, di sentire la vita e accettare quello che potrebbe accadere. Sara alla fine scaccerà l’uomo color cacca per potersi ributtare nella vita, perché si sente tagliata fuori, fuori dal suo vero “sentire”».
Palestra. I dolori ci allenano alla vita. Ma alla fine ne usciamo davvero tonificati o inesorabilmente disillusi e spossati?
«Arriva un punto nella vita, dopo tanta “palestra”, in cui capisci che non ci sono risposte definitive. Questa è la conquista di Sara: vivere nella possibilità di essere sempre in contatto con quello che sente. Esistere dentro le cose, senza cercare di dare per forza un ordine, di controllare tutto. Godere delle piccole e grandi cose, facendo solo attenzione a non farsi troppo male».
Perdono. Alla fine del romanzo subentra un “perdono laico”, verso il marito, il padre, e soprattutto sé stessa.
«Sara ha cercato un uomo simile a suo padre per quel meccanismo perverso, molto femminile, che ci fa ri-cadere in quello che vorremmo evitare (capita la stessa cosa alle donne che si fanno maltrattare, per esempio). Credo succeda perché quando un padre ti abbandona da piccola ti senti responsabile tu, credi di non essere degna del suo amore, vivi piena di sensi di colpa. Sara non si sente degna del compagno, nello stesso modo in cui non si sentiva degna di suo padre da piccola. Si carica della responsabilità di tutto: di non aver salvato suo padre, di non essere riuscita a tenersi il compagno. Fa lo scatto vero solo nel momento in cui capisce i due uomini della sua vita, ma soprattutto capisce che il suo “superomismo” la fa soffrire, è controproducente. Si rende conto che non può fare tutto, si riconcilia con sé stessa e riesce a rinascere a tutto tondo. Si accetta, si lascia andare. Riparte da questo patto con se stessa».
“Guardo lo specchio e mi riconosco: un accenno di quella espressione confidenziale, sorniona, di chi ha quasi tutto sotto controllo. Dopo tutti questi anni la frenesia della fuga dal dolore non c’è più, ma l’esito rimane comunque alquanto incerto”.
Eleonora Molisani @emolisani