Emanuele Pettener, docente di lingua e letteratura italiana all’Università di Boca Raton, in Florida, torna il libreria con il terzo romanzo: Arancio (Priamo e Meligrana, € 15; e-book, € 6,99). Tommaso Arancio, maestro di tango, vive in Islanda e trascorre le sue serate al pub La Sardina Celibe. Una notte incontra la grassona più ricca d’America, che si innamora di lui e gli offre un lavoro nella redazione del suo giornale. Tommaso si trasferisce così in South Florida, dove dovrà vedersela non solo con la prepotente e spregiudicata innamorata, ma anche con il discutibile ambiente che la circonda. Finché un barista, che afferma di essere Dio, una sera gli dice: «Fai quello che vuoi!». Consiglio facile da formulare, ma difficilissimo da realizzare…
Questo piccolo capolavoro d’umorismo diverte e fa riflettere. Si legge tutto d’un fiato e ci trasporta per qualche ora in un’atmosfera surreale, tra gli innamoramenti, le perfidie, le debolezze e la disarmante poesia che contraddistingue gli esseri umani. A tutte le latitudini.
Se dovesse convincere i lettori a leggere Arancio, che argomenti userebbe?
«Arancio è leggerezza. È una vacanza ai Tropici per dimenticare il mondo e se stessi. È riposare placidi su una spiaggia di sabbia bianca di fronte all’oceano cristallino, gli occhi chiusi, senza un pensiero molesto, baciati da un sole sensuale. È profumo di mango e creme solari, allegro berciare di gabbiani e visioni che provengono dal cielo blu, o da qualche passato sconosciuto».
Nel nuovo scoppiettante plot lei è particolarmente sarcastico nei confronti degli editori e dei giornalisti. Pensa che in quegli ambienti ci si prenda troppo sul serio?
«Penso che la gente si prenda troppo sul serio in tutti gli ambienti. Ma fare satira non m’interessa. Chi fa satira avverte un’integra certezza di superiorità morale, e in base a questa ridicolizza il nemico. L’autore di satira non viene sfiorato dal dubbio che il vizio per cui flagella l’avversario oggi, potrebbe essere il suo un giorno, se già non lo è. Si sente sempre dalla parte della ragione, con sacchi pieni di prime pietre da scagliare».
E lei invece come tratta il vizio nella sua scrittura?
«A me interessa un vizio non per denunciarlo, ma per coglierne le sfumature di colore. E se descrivo un vizio, non me ne sento immune, lo studio prima di tutto su me stesso. M’interessa l’umano, e cerco di indagarlo attraverso la lente dell’umorismo: attraverso l’umorismo cogliamo le innumerevoli sfaccettature della realtà, e intuiamo come tutto sia relativo. Don Abbondio ci fa sorridere perché è un codardo, ma dopo un po’ ci domandiamo: “E noi ci saremmo comportati diversamente nei suoi panni?”».
I divertenti e a volte struggenti personaggi del suo romanzo si ispirano a persone che ha conosciuto nella vita reale?
«Li ho conosciuti dentro e fuori di me, come tutti. Chi non ha conosciuto una cicciona innamorata, una bionda feroce e arrivista, un maschio sposato e fedifrago? Chi non ha mai immaginato di duettare con Dean Martin sulle note di That’s Amore o non si è mai sentito Dio?»
Il messaggio di Arancio è: “Fai quello che vuoi!”. Una cosa difficilissima da realizzare nella vita. Ha qualche consiglio pratico per riuscirci?
«Lo so, è difficilissimo. Già capire quello che vogliamo è un’impresa improba, e distinguerlo da quello che gli altri vogliono che noi facciamo, o da quello che noi supponiamo gli altri vogliano che facciamo. Viviamo sotto pressione, costretti a indossare maschere per sopportare la realtà e noi stessi e per farci accettare dagli altri. Il nostro desiderio di essere accettati, benvoluti, ammirati, è la nostra schiavitù: si vedano i social network, per esempio».
Cosa propone in alternativa?
«Recuperare il silenzio. Spegnere i cellulari, disconnettersi dalla rete, entrare quotidianamente nel “monastero” del nostro cuore. Comunichiamo con tutti tranne che con noi stessi. Dovremmo chiederci continuamente: “È proprio questo quello che voglio? Sono troppo vile per accettare, e realizzare, quello che voglio davvero?”».
È passato dalle storie – poetiche e commoventi – di emigranti italoamericani in Proust per bagnanti, a un racconto umoristico scanzonato e dissacrante. In quali panni si sente più a suo agio?
«Oh, io sto bene nudo o in cravatta, e persino nudo e in cravatta. Leggo, e se ne ho voglia scrivo, ciò che mi commuove e mi fa ridere, possibilmente allo stesso tempo. Amo le scintille sprigionate da due sentimenti opposti, amo quando, per magia, vedo per la prima volta un oggetto che avevo visto mille volte senza vederlo mai. In quello che leggo, e se ne ho voglia scrivo, cerco i colori, l’incantesimo, la felicità».
di Eleonora Molisani NaturalBornRaW